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Per Aspera Ad Veritatem n.22
La società italiana e il ritorno del terrorismo.

Intervista a Pio MARCONI


D. Con un comunicato diffuso attraverso Internet la mattina dello scorso 21 marzo, le Brigate Rosse hanno rivendicato l'assassinio a Bologna del Professor Marco Biagi. Molte cose sono state scritte e dette in questi mesi sul ritorno del terrorismo. In un ottica di approfondimento, che vada oltre le problematiche investigative e dell'azione di contrasto, vorremmo aprire questa conversazione con le Sue impressioni su quel documento, trarre spunto da quei fatti drammatici per una riflessione sulla società italiana.

R. Il documento è inquietante, perché ci fa capire che oggi c'è stata una svolta nell'attività terroristica rispetto ad esperienze del passato. Penso in particolare al classico terrorismo di "sinistra" degli anni settanta. Ciò che ho notato nel documento, anche confrontandolo con la rivendicazione dell'omicidio del Prof. D'Antona, sovrapponendone i contenuti, è un cambiamento d'orientamento del gruppo che si richiama alle Brigate Rosse. Non siamo in presenza soltanto di nostalgici che rivendicano forme di lotta, analisi e strategie del passato. Le nuove BR si stanno confrontando con il cambiamento della società, delle culture, dei conflitti, dei movimenti. Non c'è più il clima politico degli anni settanta nei quali ancora in molti parlavano di crollo del capitalismo o riscoprivano il tramonto dell'Occidente né esistono più i conflitti internazionali che caratterizzarono gli anni settanta: la crisi petrolifera che contrapponeva il mezzogiorno planetario al settentrione sviluppato, la politica militare e l'espansionismo di Breznev. C'è stato il crollo del muro di Berlino e la caduta dei regimi dell'Est. Il nuovo terrorismo cerca di partire da questi dati con un cambio di strategia che ha motivazioni e forme che devono far riflettere, per le conseguenze che ne possono derivare. Il brigatismo degli anni settanta si poneva programmi massimi, grandi trasformazioni rivoluzionarie della società. Collocava all'ordine del giorno l'idea del comunismo: utopia come "programma minimo". Per utilizzare una definizione corrente nel socialismo degli inizi del ventesimo secolo, il terrorismo degli anni settanta era di tipo massimalista. Fra i socialisti dell'inizio del novecento, i massimalisti erano i sostenitori del programma più radicale. A partire dall'omicidio D'Antona e poi con l'uccisione del professor Biagi si nota un cambiamento. Improvvisamente il programma delle nuove Brigate Rosse è diventato minimalista. I terroristi di oggi non si pongono nell'immediato i grandi problemi della costruzione di una società "nuova", agiscono come i minimalisti di inizio novecento i quali affermavano l'inattualità di un programma di sovvertimento radicale e l'opportunità di un'azione articolata su concreti, anche se minori, obiettivi di riforma. Il minimalismo socialista era naturalmente favorevole ad una via pacifica e democratica, mentre il minimalismo brigatista ricorre al metodo della violenza e della distruzione spietata della vita.

D. Quali sono le speranze di consenso per questo nuovo minimalismo?

R. Le nuove BR sono convinte di ottenere consenso attraverso la scelta di tipo minimalista. Il documento di rivendicazione è esplicito: il programma minimo permette di ricostruire la funzione guida del "partito". Dietro al minimalismo c'è la speranza e l'illusione dei brigatisti. Ma occorre considerare anche altri aspetti del problema. Il nuovo minimalismo può avere effetti comunicativi perché può inserirsi in spazi che erano occupati tradizionalmente da rappresentanze politiche e sindacali del lavoro. Quando parlo di effetti comunicativi non ipotizzo una "comprensione" paragonabile a quella che attorniava il brigatismo negli anni settanta. In quegli anni il terrorismo "di sinistra" godeva di consensi e di insediamento sociale. Alcuni giornalisti vennero demonizzati perché avevano avuto la "colpa" di registrare, con professionalità ed imparzialità, che in alcuni ambienti di fabbrica le azioni iniziali del terrorismo avevano trovato se non consenso almeno comprensione. Ci furono aspre critiche rivolte a questi osservatori colpevoli solo di aver fatto il loro mestiere. Non credo che siano ipotizzabili assensi di quella vastità, ma ciò non toglie che un programma minimalista armato ed un'attività minimalista armata possono alimentare un "bacino di ascolto". Nel mondo stanno avvenendo grandi trasformazioni culturali. La morte innaturale, prodotta dagli antagonismi, irrompe nel quotidiano. Non dobbiamo mai dimenticare il dramma di questo secolo iniziato con il rientro della violenza all'ordine del giorno. Dopo l'11 settembre del 2001 la devastazione, la negazione di ogni diritto alla vita per gli innocenti, sono prepotentemente apparsi come strumenti di soluzione dei conflitti. C'è stata la condanna degli Stati. Ma il 12 e il 13 settembre ci sono state anche le manifestazioni di giubilo, le dichiarazioni di comprensione, le analisi sulle "colpe" della vittima, i roghi delle bandiere del paese aggredito. Anche la società italiana sta subendo grandissime trasformazioni, ne parleremo più avanti. Dietro il programma minimalista delle Brigate Rosse c'è una lettura delle trasformazioni della società italiana ed anche la consapevolezza, non espressa forse a pieno nel documento, che in questa società ci sono strati sociali non rappresentati. Esiste un grande cambiamento, nello sviluppo di questi anni. La società mondializzata, l'economia mondializzata hanno prodotto nei paesi sviluppati un'emarginazione del tradizionale lavoro fordiano, quello della grande fabbrica e anche della grande azienda impiegatizia: un lavoro di massa regolato da rapporti di stretta dipendenza, con una forte gerarchia interna. Questo tipo di lavoro va finendo. Le società sviluppate delegano la produzione al Terzo mondo, la organizzano in modi nuovi, inventano rapporti di lavoro anomali o “creativi” e ricorrono in modo crescente a macchine intelligenti che sostituiscono l'opera umana. Un esempio può aiutare a comprendere gli aspetti essenziali di questo nuovo sviluppo, il telelavoro. Sarebbe un errore concepirlo come lavoro dipendente eseguito tra le mura domestiche. La novità del telelavoro è dovuta al fatto che le attività produttive e produttrici di reddito sono sempre più possibili scomponendole in mansioni autonome. La nuova produzione di ricchezza è spesso opera, in rete, di mansioni autonome intelligenti. Non c'è più bisogno della gerarchia tipica del sistema fordiano che distingueva nettamente il pensiero dirigente dall'esecuzione brutale. Questa è la grande trasformazione che mette in crisi il tradizionale lavoro dipendente e che emerge anche quando si esamina la composizione professionale degli iscritti ai grandi sindacati. Le organizzazioni sindacali di massa rappresentano, o meglio hanno una piattaforma di iscritti fatta soprattutto di pensionati. Ciò significa che vengono meno nuove leve del lavoro tradizionale. E significa anche che i lavoratori giovani e il lavoro fordiano si spostano in direzione del sindacalismo di base, che sembra più efficace nella contrattazione aziendale, oppure compie la scelta dell'assenteismo o dell'astensionismo associativo. C'è anche una crisi di rappresentanza del lavoro nella politica del quale occorre tenere conto. Il modello della globalizzazione, cioè l'economia della globalizzazione, produce forme di emarginazione, di perdita di centralità di strati sociali. Questo fenomeno si è accompagnato in Italia a riforme del sistema politico e del sistema elettorale che sicuramente producono sottorappresentanza. Non sono un nostalgico del proporzionale, lo dico chiaro, ma ho il dovere di segnalare che i meccanismi elettorali proporzionali garantiscono forme di rappresentanza ampia dei bisogni, danno una voce a tutti gli interessi. Naturalmente il proporzionale ha anche un'altra faccia, ben nota. Favorisce incertezza nelle politiche di governo, instabilità parlamentare, assemblearismo, consociazione. Se questi sono i limiti del proporzionale, non si può trascurare in un'analisi obiettiva la maggiore vocazione di questo sistema, perlomeno in paesi dotati di pluralismo culturale fortemente antagonistico, alla produzione di integrazione istituzionale. Col proporzionale qualsiasi gruppo che raggiunga il quorum d'entrata, uno per cento, cioè una cifra abbastanza bassa, può aspirare alla rappresentanza. Una quantità minima di voti poteva sancire, con il proporzionale, l'integrazione nel sistema politico e l'interlocuzione con la politica. Dallo scenario che ho descritto, in termini di sviluppo economico e funzionamento delle istituzioni, in termini di integrazione e di sottorappresentanza, mi pare possa dedursi quindi che gli appelli del minimalismo armato possono trovare forme di ascolto. Dicendo questo occorre stare attenti a non criminalizzare ambienti socialmente svantaggiati. Però nessuno si deve offendere per queste analisi. La cosa peggiore è che ci siano reazioni risentite da parte degli spazi sociali nei quali possono trovare ascolto questi messaggi. Il risentimento, come il politically correct, inibisce ogni tipo di riflessione, finisce con il trasformarsi in censura o in istigazione all'autocensura. Non bisogna mai dimenticare che la società contemporanea sta producendo forme di uscita dal circuito della decisione politica di alcuni strati e di alcune parti della popolazione. Si vuole una prova di ciò? Basta considerare l'assenteismo elettorale, i dati sulla partecipazione al voto. In Italia, come in tutti i paesi fuoriusciti da una dittatura, c'era tradizionalmente un'altissima partecipazione al voto. Nel secondo dopoguerra, questa era anche dovuta al fatto che le donne, gelose di un diritto appena conquistato, andavano in massa a votare. Un sintomo di rottura iniziò a manifestarsi negli anni settanta, con il voto nullo. Si annullava la scheda, però si andava a votare: l'ingresso nel seggio elettorale veniva comunque visto come un dovere. Oggi abbiamo forme di calo vistose della partecipazione elettorale. Quando in una società come quella italiana cominciano ad affiorare fenomeni di svalutazione del voto, dobbiamo porci qualche domanda. Valgono fino ad un certo punto i confronti con altre realtà. La scarsa partecipazione al voto negli Stati Uniti, dove l'afflusso alle urne è bassissimo, incide scarsamente sull'integrazione politica. In quel paese il "contratto sociale" e la fedeltà istituzionale sono molto sentiti. Nella nostra realtà dobbiamo esaminare invece le ideologie che agitano la società. Noi abbiamo istituzioni che legano i cittadini, ma abbiamo un difetto nelle culture di base, una carenza di legittimazione del sistema politico, un'assenza di quell'etica pubblica diffusa che caratterizza i grandi paesi con i quali ci dobbiamo confrontare. Pensiamo agli Stati Uniti. Il Presidente è stato eletto con uno scarto minimo di voti, e sulla base di una votazione, l'ultimo scrutinio in Florida, fortemente contestata. Eppure, il giorno successivo alla decisione dell'ultima istanza giurisdizionale, il candidato dell'opposizione ha riconosciuto la legittimità dell'elezione di Bush. Poi, in un lasso di tempo abbastanza breve, di fronte ad una grave emergenza come quella dell'undici settembre, tutti gli Stati Uniti si sono schierati dalla parte delle istituzioni: tutti gli ex presidenti, tutto l'establishment. Non dalla parte della politica di Bush, ma dalla parte di istituzioni che rappresentano la nazione. In Italia manca questa cultura comune. Si tratta di un difetto di etica politica moderna, le cui cause sono state del resto scandagliate ampiamente dagli storici. Non si può dimenticare il convivere nell'Italia di oggi di tante diverse tradizioni politiche. Alla nascita dello Stato unitario, una parte della società italiana riteneva che l'ingresso dei bersaglieri a Roma avesse violato principi superiori, religiosi, etici e politici. Avemmo poi la dittatura, quindi un secondo dopoguerra fortemente conflittuale, nello scenario della divisione del mondo in blocchi ideologici e militari contrapposti. La carenza di un'etica istituzionale comune discende anche da queste esperienze e andare oltre al costume, a volte palese a volte latente, della delegittimazione istituzionale costituisce la sfida degli anni futuri. In questo quadro si inserisce la variabile inquietante di un terrorismo che opera con una logica abbastanza nuova per l'Italia: mantiene il programma massimo sullo sfondo, con una scelta di minimalismo effettivo. Non è in effetti una novità assoluta sulla scena mondiale. In parte ci sono già state esperienze di questo tipo nel terrorismo, pensiamo ai gruppi di tradizione m-l, non naturalmente nel senso di marxista-leninista, che agiscono e hanno agito in America latina. Si ispiravano al maoismo, al messaggio populista, all'imperativo di andare verso il popolo o di servire il popolo, attraverso prassi di ridistribuzione armata. Si tratta però di esperienze che devono far riflettere in quanto si dimostrano difficilmente sradicabili dai contesti nei quali sono collocate e periodicamente risorgenti.

D. Quali deduzioni conseguono da questa analisi e come si inseriscono in questo contesto i metodi delle Brigate Rosse?

R. Il convergere di una debole legittimazione delle istituzioni e di difetti nella rappresentanza degli interessi, segnala che nella società italiana ci possono essere zone nelle quali messaggi che riescono a coniugare violenza ed efficacia possono trovare ascolti sia pure minimi. Vorrei proporre però ora una riflessione che consegue da una tecnica che ho applicato nell'esame del documento delle Brigate Rosse. Si tratta di una tecnica adottata in genere nell'interpretare oltre che l'agire economico anche quello politico. L'azione politica mira al raggiungimento di un fine ed insieme alla "riproduzione" dell'attore politico. La logica dell'agire politico non riguarda naturalmente solo le grandi forze ma anche un piccolo gruppo politicamente motivato. Nella prassi delle nuove Brigate rosse c'è una logica costi benefici molto rigorosa e un rigoroso rispetto del principio della produzione di effetti e della riproduzione degli agenti. Esaminiamo i costi. Si colpiscono figure simboliche per l'agire delle istituzioni, ma non di primo piano. Figure che possono godere per esempio di una tutela personale ma non godono certo di una tutela istituzionale. Un consulente può avere una tutela, una scorta, ma non ha quella tutela istituzionale che ha un Ministro. Il Ministro si muove da un ufficio vigilato e va in genere in un posto altrettanto vigilato, un consulente al massimo può avere una tutela di due persone, quando le ha. Si vuole colpire persone per le quali il costo dell'azione è relativamente basso. Passiamo ai benefici. I brigatisti hanno cercato di ottenere un duplice beneficio. Un effetto esterno: inibire l'azione dei poteri pubblici e cercare di bloccare un provvedimento inviso. Un effetto riproduttivo: ottenere "consenso" con una prassi devastante ma capace di apportare risultati.

D. Tarantelli, D'Antona, Biagi. Quale filo lega il percorso del terrorismo rispetto al mutamento del contesto economico e sociale?

R. Vedo una differenza rispetto all'uccisione del Prof. Tarantelli. Quell'atto criminale aveva certo una logica simile a quella che ha portato ad uccidere il prof. Biagi: colpiva un consulente vicino alle Istituzioni che aveva teorizzato un particolare modello di politica economica e del lavoro. La teoria di Tarantelli era che gli scatti di contingenza, l'automatismo retributivo, indebolivano i sindacati perché ne riducevano il potere contrattuale. Se è lo Stato a fornire gli aumenti a cosa serve il sindacato? Aveva poi posto un problema di politica economica. Con gli automatismi retributivi l'inflazione non si sarebbe potuta sconfiggere. L'uccisione di Tarantelli aveva dunque una motivazione simile a quella che ha portato all'uccisione di Biagi. Però con una differenza: difficilmente l'economia italiana avrebbe potuto sopportare la rinuncia agli interventi sulla contingenza in quel periodo. Pensiamo al livello che aveva raggiunto l'inflazione tra gli anni settanta e ottanta. Esecutivo e maggioranza parlamentare infatti, pur fra grandi dibattiti interni, mantennero fermo l'accordo di San Valentino e accettarono persino di contrastare un referendum abrogativo. Nelle azioni contro D'Antona e Biagi c'è qualcosa di diverso. Nel caso del prof. Biagi, si prende a pretesto un articolo dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, pur oggetto di un significativo scontro tra parti sociali, non ha quell'impatto sull'economia che poteva avere il problema dell'indennità automatica di contingenza. Non so cosa accadrà dell'art. 18 quando potrà essere letta questa intervista. Non posso prevedere se resterà ferma la modifica del testo del 1970. Posso solo affermare che un cambiamento della portata dell'articolo 18 non appare essenziale alla ripresa economica. Il tema riguarda piuttosto le motivazioni dell'impresa negli investimenti, un problema naturalmente non secondario. Mi sembra però possano esserci altre strade che muovano nella stessa direzione. L'articolo 18 può quindi essere conservato tale e quale, senza grossi danni. Per questo appare al nuovo brigatismo come un obiettivo possibile e praticabile. Devo anche aggiungere che i vincoli dell'articolo 18 all'attività d'impresa sono venuti più dall'interpretazione giurisprudenziale della norma che dalla volontà del legislatore, il quale prevedeva un processo rapidissimo, forme veloci di reintegro, e una interpretazione ragionevole della giusta causa. Colpendo Biagi le nuove BR vogliono dimostrare di poter raggiungere con mezzi violenti obiettivi praticabili che appaiono invece difficili se perseguiti con i tradizionali strumenti del conflitto.

D. Qui si inserisce il tema della protezione e delle scorte, che tante polemiche ha suscitato.

R. Devo dire che non so pronunciarmi sulle scorte. Ricordo solo alcune esperienze. Tante scorte in Sicilia e nessuna scorta al giudice Livatino. Oppure Falcone: macchina scortata e un attentato da scenario bellico. Le scorte, è innegabile, sono un deterrente forte perché rendono un attentato più oneroso. È necessario infatti costruire una rete che finisce per rendere l'organizzazione terroristica o criminale più vulnerabile. Se costretti a compiere attentati che comportano un'organizzazione sofisticata, gli autori rischiano maggiormente di essere scoperti. Il costo è maggiore. Si tenterà però di colpire in questo caso un obiettivo a costo zero e di ricavarne possibili benefici. Il terrorismo cerca sempre dei benefici. Sia pragmatici: eliminare un giudice che conduce indagini decisive. Sia simbolici: mostrare forza, inibire le istituzioni, cercare consensi o complicità. Il terrorismo nega la democrazia e i metodi democratici, è una forma di politica totalitaria. Ma anche il totalitarismo e le dittature cercano il consenso. Sia pur minimo, sia pure parziale e parzialissimo. Gruppi intenzionati con la violenza, con mezzi spietati, a fare politica, possono esistere solo in relazione alla speranza di contattare un uditorio di riferimento. La prova dell'esistenza di un possibile bacino, seppur minimo, di consenso, la hanno fornita dopo l'uccisione del prof. Biagi le stesse organizzazioni sindacali che hanno sentito il bisogno di manifestare una conflittualità rafforzata di fronte al pericolo di una deriva estremista.

D. Uno dei temi di riflessione è infatti il ruolo delle organizzazioni sindacali.

R. L'assenza di una solida legittimazione delle istituzioni in Italia non ha rafforzato le organizzazioni del lavoro ma le ha indebolite. Organizzazioni del lavoro veramente forti operano solo in quei paesi dove esiste una granitica legittimazione delle istituzioni. Ho fatto ricerca in quelle che un tempo si chiamavano le due Germanie e conosco il contesto sociale del paese. Il sindacato italiano, quello confederale, di cui peraltro faccio parte, pur essendo guardato come una mosca bianca dall'ambiente dei cattedratici, rispetto all'organizzazione dei lavoratori tedeschi è moderato. Il conflitto sindacale in Germania è conflitto durissimo. Lo stesso si può dire per la Gran Bretagna, nonostante le modifiche degli spazi di contrattazione avutisi con il governo di Margaret Thatcher. In Francia il sindacato ricorre a forme di lotta molto aspre e impensabili in Italia. La base di un sindacalismo incisivo deriva a mio avviso dall'esistenza di una forte legittimazione delle istituzioni. Con istituzioni forti e dotate di consenso le richieste sindacali anche più radicali non appaiono come una minaccia alla stabilità del sistema. In Italia invece non si è ancora colto appieno come il sindacato sia figlio di un sistema sociale fondato sul mercato. Dove non c'è economia di mercato il sindacato è qualcosa di poco serio. Nei paesi dell'Est, in Unione sovietica, ai tempi del socialismo reale, il sindacato era un semplice apparato assistenziale, per di più inefficiente. Il sindacato è un epifenomeno dell'economia di mercato e può essere veramente incisivo soltanto nel momento in cui riconosce un'economia di mercato. Quando il conflitto sembra mettere in discussione le basi della società, si indebolisce. Viene visto come delegittimazione dell'equilibrio sociale, quindi tutta la società fa muro e si autotutela. In Germania era certamente più facile: avevano il modello dell'Est da rifiutare e il terrore che le prassi della Germania dell'Est potessero venire esportate in quella dell'Ovest. Per questo i sindacati erano e sono antitotalitari, filooccidentali, aderenti alla società di mercato, eppure pronti a difendere i lavoratori con le unghie e con i denti. In Italia viceversa si percepisce la mancanza di una cultura diffusa del mercato. Abbiamo vastissimi ambienti intellettuali e strati sociali che vedono nel mercato solo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, abbiamo culture religiose che guardano con diffidenza il mercato perché è avere e non essere, come diceva Fromm. Culture politiche importanti hanno tradizionalmente preferito lo Stato al mercato, perfino la cultura liberale italiana, a differenza di altri paesi occidentali, è stata spesso statalista.

D. Si è molto scritto sul rapporto tra questi episodi e il terrorismo degli anni settanta. Vale dunque la pena di ragionare sulle differenze tra la società italiana di quel periodo e quella dei nostri giorni.

R. C'è un problema che riguarda le società sviluppate. È venuto meno un grande elemento di ordine della società. Il più grande strumento di ordine del quale godeva la società industriale era la fabbrica. Lo affermano due grandi pensatori dell'ottocento, Auguste Comte e Karl Marx. Il primo osservava, nell'analizzare la società industriale, che la fabbrica garantisce l'ordine più delle leggi e delle punizioni. Marx nel Capitale evidenzia la "silenziosa coazione dei rapporti economici", cioè le forme di relazione economiche che garantiscono l'ordine sociale. La fabbrica, la grande fabbrica fordiana era un elemento di controllo sociale. Ho intrapreso una consulenza presso una grande amministrazione comunale relativa alla sicurezza nella città. Mi sono subito accorto che la deindustrializzazione di quella grande città produceva problemi di ordine e di vigilanza. Non si aveva più, come nelle città industriali tradizionali, una metà della popolazione chiusa per molte ore tutti i giorni nella scuola o nella fabbrica.
Il problema della sicurezza in questa grande città era dovuto al fatto che in ogni ora del giorno si manifestavano picchi di emergenza. La società industriale perde ordine poi perché vengono meno forme di disciplina volontaria. La fabbrica non si reggeva solo sul comando, ma anche sulla solidarietà e sull'omogeneità dell'etica del lavoro. I lavoratori erano dotati di una fortissima etica non solo professionale: il declino è forse iniziato con l'operaio massa, rude stirpe pagana, come lo ha definito uno studioso marxista. Una delle grandi qualità della classe operaia europea è stata sempre l'orgoglio per il lavoro ben fatto e il desiderio del lavoro ben fatto. Orgoglio e desiderio che a volte producevano conflitto con l'impresa meno lungimirante. Questo orgoglio ha cominciato a declinare nel momento in cui sono state introdotte forme di organizzazione del lavoro che impoverivano le mansioni e mortificavano la professionalità. Oggi siamo ad un nuovo modello di società e a un nuovo modello di lavoro: si parla di lavori per sottolinearne anche la diversità e l'individualità. In una società fondata sull'individuo e sulla competizione individuale, la devianza è sempre più possibile. Non dimentichiamo che c'è sempre una correlazione tra primato dell'individuo e devianza. La società del mercato è fondata sull'individuo ma anche su elementi controllabili di devianza: si regge sull'innovazione, che significa rottura di una regola. La devianza fa parte della società e di un tipo di società. Ma dobbiamo anche valutare quanto può incidere una ripresa della devianza politica e della violenza in una società come quella italiana. Subire una coda di violenza, o una rinascita della violenza, è possibile in paesi molto stabili, mentre in Italia può essere fortemente destabilizzante. L'Italia è più vulnerabile alla violenza proprio perché, e uso un termine tratto dai documenti BR degli anni ottanta, è ancora per alcuni versi un anello debole della catena dello sviluppo. I paesi più sviluppati godono non soltanto di patrimoni finanziari o tecnologici, ma sono in grado di coniugare capitale ed innovazione con altre risorse che possiamo definire culturali e politiche. Mi viene di pensare, per chiarire il mio pensiero, che quando ero bambino l'Argentina era uno dei paesi più ricchi del mondo. Il nostro Paese, nel secondo dopoguerra, non è stato aiutato soltanto dal piano Marshall, ma anche, e in modo molto consistente, dalle rimesse venute dall'Argentina. Oggi quella grande nazione vive una crisi terribile. Perché? Non credo che per l'Argentina si possa parlare di sottosviluppo. Gode di risorse naturali e di risorse d'impresa. Manca però di una cultura politica capace di dotarla di istituzioni efficaci, manca di una cultura dell'alternanza. Non c'è la successione dei governi ma l'intervento militare o della piazza. I paesi sviluppati con i quali dobbiamo competere non hanno solo risorse finanziarie e di innovazione ma hanno anche un sistema radicato di libertà politiche, un sistema nel quale la decisione democratica è fortemente legittimata. Si elegge una maggioranza e si sa che questa maggioranza ha il compito di governare. L'opposizione e la maggioranza si differenziano non in quanto buoni e cattivi ma perché ciascuno andando al governo ha l'opportunità di cambiare i provvedimenti del predecessore, quando ritenuti errati o non adeguati all'interesse del Paese. Diversa è la situazione in quelle realtà nelle quali l'alternanza non è mai completamente legittimata. I contendenti pensano sempre e a volte proclamano che chi sta al governo manchi alle radici di legittimazione. Si tratta di una cultura che indebolisce ogni paese. Un secondo fattore di vulnerabilità del nostro paese viene dall'assenza di una cultura del mercato come veicolo di sviluppo, dalla mancanza di una filosofia e di una prassi della libertà come possibilità di costruire un autonomo percorso esistenziale. Questa non è la teoria thatcheriana, è la teoria di Amartya Sen, premio Nobel dell'economia, interprete dei mali del sottosviluppo, e studioso delle terapie per il Terzo mondo.

D. È un'analisi molto interessante che ci riporta fatalmente alla domanda che ci eravamo posti. Coda degli anni settanta o nuova manifestazione?

R. Devo dire che soggettivamente è fortemente probabile che ci troviamo di fronte, sulla base degli elementi a disposizione, a delle code: una sorta di eredità culturale. Ma oggettivamente si tratta di un fenomeno totalmente nuovo, almeno sotto due aspetti. Prima di tutto questo fenomeno si colloca in un nuovo contesto economico, la mondializzazione: un contesto di crescita ma anche di conflitti e di conflitti sanguinosi. In secondo luogo cerca, o si illude, di comunicare non con una “classe egemone” ma con strati sociali penalizzati dallo sviluppo economico. Pensate quanto repentinamente il lavoro fordiano è passato dalla centralità alla rimozione. Nei film degli anni settanta la classe operaia andava in paradiso. In quel periodo metà della cinematografia italiana, persino il genere comico o di evasione, si riferiva alla classe operaia. Il cinema italiano era fatto di e per la classe operaia. Oggi? Ho fatto preparare una microricerca sui temi dell'ultima campagna elettorale. Nei programmi e nella propaganda elettorale il termine operaio è quasi scomparso.

D. Le organizzazioni terroristiche degli anni settanta teorizzavano la clandestinità. Oggi forse non è più così.

R. Non sono in grado di dire se la nuova figura del brigatista è clandestina o non clandestina. Ho solo letto nel documento che il gruppo intende graduare la propria azione distinguendo tra regolari ed irregolari. Per quello che mi ricordo la distinzione fra regolari ed irregolari vuol dire brigatisti full-time e brigatisti part-time. Questi ultimi vivono nella società con un lavoro o un reddito e non sono a carico dell'organizzazione. Da quella notazione si può desumere che una parte sia full-time. Tuttavia devo dire che nella società contemporanea cambia natura la distinzione tra clandestino ed irregolare. Nell'esperienza degli anni settanta il clandestino non svolgeva un'attività produttiva nella società civile, l'irregolare era invece una persona che si presentava in fabbrica o in ufficio poi nel tempo libero svolgeva attività di supporto. Dobbiamo però ricordare che nella società contemporanea questo tipo di distinzione funziona sempre meno. Il lavoro oggi non è più necessariamente lavoro fisso. La società contemporanea vede lo sviluppo del lavoro flessibile, delle alternanze di lavoro e questo incide anche sulle organizzazioni. La quantità e la natura degli attentati fa poi pensare ad una struttura piccola. Un'organizzazione clandestina si mantiene immune solo se ristretta: l'allargamento rende vulnerabili. Ma la quantità si trasforma spesso in qualità. Un numero ristretto di aderenti può rendere ancor più violente le azioni. La pietà e la "moderazione" vengono solo da un controllo collettivo e da una discussione ampia. Non indulgerei però nel continuare a parlare di delirio brigatista. Questa terminologia è fuorviante. Sicuramente può essere valida per la seconda fase delle vecchie Brigate rosse, strangolate nell'autoreferenzialità. Tuttavia io non uso mai il termine delirio perché la mia generazione è stata vaccinata contro coloro che riducevano l'orrore politico e la violenza a delirio: Hitler un pazzo, Mussolini un succube. No. Per difendersi dal fanatismo, dal totalitarismo, dalla violenza occorre conoscerne per contrastarle le fonti e la "razionalità". Solo così e possibile che non tornino a riapparire.

D. Dunque non è peregrina l'ipotesi che soggettivamente e politicamente il terrorismo tenti di infiltrare i movimenti, che non viva chiuso nell'autoreferenzialità dell'organizzazione, ancorché piccola. Un problema in più per l'azione di contrasto.

R. Alcune tesi dei nuovi brigatisti circolano anche nel seno di gruppi i quali peraltro non predicano la violenza omicida. Alcune analisi sui conflitti propri dell'economia mondializzata sono letteratura corrente. Non si deve però pensare che coloro che criticano la società e il mondo moderno siano complici del terrorismo o lo favoreggino. Di fronte al terrorismo bisogna saper misurare la repressione e la prevenzione e saper distinguere la libera manifestazione del pensiero dalla prassi e dall'organizzazione del terrore. Non dimentichiamo che i gruppi terroristici agiscono affermando che non esiste la democrazia, che esiste il regime, che non esiste la possibilità di far valere democraticamente opinioni o di soddisfare bisogni sociali per una via legale. Il terrorismo quando agisce auspica perciò anche una svolta illiberale nelle istituzioni che considera antagoniste. Il modo peggiore di rispondere al terrorismo sta nel dare un volto repressivo al sistema politico e al sistema della sicurezza. Lo scopo della violenza politica è anche di dimostrare che con la dialettica democratica e con le libertà non si raggiunge nulla perché lo Stato è ingiustizia e repressione. La democrazia non deve entrare nel gioco perverso dei "proclami", dei provvedimenti urgenti o dell'inasprimento generico della legislazione penale e processuale. Non vanno ripetuti errori. Mi ricordo quando in Italia fu introdotto il fermo di polizia. Era una norma inutile e infatti fu lasciata cadere. Ma attribuiva connotati impropri allo Stato di diritto e al sistema democratico e quindi era una norma controproducente. Non bisogna "ruggire" contro il nemico ma sviluppare politiche e predisporre investimenti adeguati. La legislazione, per quantità di pena e per strumenti processuali è sufficiente. Siamo invece carenti nelle norme organizzative. Penso al nuovo codice di procedura penale. Per paura del tiranno ha ecceduto nell'attribuire all'autorità giudiziaria funzioni di direzione della polizia. In Italia però non c'è formazione professionale specifica negli uffici di procura. E poi attribuendo al PM la direzione delle indagini viene meno un elemento di controllo esterno sul procedimento di raccolta delle prove e degli indizi.

D. Il terrorismo degli anni settanta generava paura, anche se una forte e articolata reazione, dello Stato e della società civile, ha alla fine determinato la sua sconfitta. Le reazioni di oggi sembrano lo specchio di una società più matura e consapevole, forse proprio perché si è passati attraverso quella dura prova. È cambiata la cultura comune della sicurezza?

R. Il dato positivo è che oggi si stanno creando in Italia le basi per una cultura comune della sicurezza. Un tempo chi parlava di sicurezza veniva etichettato politicamente come reazionario e antidemocratico, era accusato di volere Legge e Ordine scritti in caratteri gotici. Ancora adesso qualcuno inveisce contro le tematiche securitarie. Ma il dato prevalente è che la cultura della sicurezza è sempre più condivisa, arricchita anche di dati empirici. C'è stato un indirizzo di criminologia che condannava negli anni sessanta in Europa le politiche repressive dello Stato affermando che esse erano antipopolari e classiste. Gli studiosi di questo orientamento si sono messi però a fare indagine empirica ed hanno scoperto che la criminalità colpisce più i poveri che i ricchi. La criminalità diffusa è una grave forma di ingiustizia sociale: colpisce i poveri e favorisce le ricchezze delle centrali del crimine.

D. Una cultura diffusa più solida, dunque, che si confronta con un terrorismo che, almeno fino a questo momento, colpisce ad intervalli di tempo anche significativi. Cosa può voler dire questo in termini di vulnerabilità?

R. Il nuovo brigatismo si muove a piccole tappe e cerca di conquistare un minimo consenso, allo scopo di rappresentare una sorta di ipoteca permanente sulle decisioni politiche. Nella logica dell'azione politica, un gruppo ultra minoritario può sentirsi fortemente motivato se con la sua azione crede di poter incidere nel gioco decisionale. L'obiettivo che i nuovi brigatisti si pongono è ancora piccolo, non credo che possano raccogliere consensi larghi, però temo che senza interventi oculati, rischiamo una deriva fortemente negativa. Formulo un paradosso. Mentre alcuni paesi più stabili possono permettersi di avere una variabile impazzita interna, non credo che l'Italia possa permetterselo. È bene ricordare che la fine dei blocchi che contrapponevano Est ed Ovest, ha moltiplicato la competitività tra Nord e Sud planetario, ma anche tra i paesi più sviluppati. Non ci sono più i grandi nemici ma non tutti sono amici. L'indebolimento di un paese giova sempre ad altri. Questo non vuol dire che il terrorismo sia teleguidato. Ma il terrorismo può rappresentare la classica palla al piede in un processo di competizione che è sempre più intenso e che richiede velocità di azione e di decisione.
Non ci possiamo permettere il lusso di condizionare alla variabile indipendente della violenza le politiche economiche o del lavoro. Ci sono nel nostro paese troppi squilibri e troppe arretratezze che limitano la competitività. Manca all'Italia la grande spinta dell'investimento nella ricerca scientifica. Affrontiamo la globalizzazione apparentemente ben attrezzati, siamo presenti nel G8, ma siamo un Paese che investe ancora poco nell'innovazione. Non è soltanto un problema dello Stato ma è un problema che riguarda anche il settore privato. Si stenta, anche nell'impresa, a sviluppare una politica della ricerca. La solidarietà d'impresa non è solo associazione sindacale d'impresa ma anche una destinazione di risorse alla ricerca scientifica che possa favorire l'intero sistema. Si guarda poco in Italia al futuro. Un difetto di lungimiranza che riguarda anche la sicurezza. Dietro all'unanimismo c'è ancora troppa retorica. Tutto lo schieramento politico si dice favorevole ad una crescita dei livelli di sicurezza però ogni volta che si propone una misura legislativa o organizzativa si aprono spaccature devastanti. Il tema degli investimenti sulla sicurezza è ancora, per fare un esempio, un tabù. Fiumi di parole sul coordinamento delle forze esistenti. Va benissimo. Ma occorre qualcosa di altro e di più. Occorre destinare risorse a questo settore e dire con chiarezza quali spese tagliare per poter alimentare la protezione del cittadino dalla violenza.

D. Un elemento chiave delle politiche della sicurezza e forse quello autorevolmente definito "paura del tiranno", cui poco prima faceva cenno?

R. Il Prof. Cheli, che propone spesso questa definizione, sottolinea come le istituzioni italiane nate con la fine del fascismo siano sottese dalla paura del tiranno. Le forze politiche hanno sempre paura quando si tratta di rafforzare l'apparato protettore dello Stato. Aleggia il timore della prevaricazione politica. Anche questo è un aspetto del difetto di culture istituzionali. Finché non usciamo da questo vicolo cieco rischiamo di portarci dietro problemi devastanti come il terrorismo, come la mafia, come il crimine organizzato e capillare. I problemi della grande violenza criminale o della grande violenza politica non possono essere affrontati solo modificando i codici. Le modifiche ci sono state e sono state forse anche troppe. La questione è piuttosto quella di consentire alle forze deputate alla sicurezza di agire con la fiducia del paese, del parlamento, delle forze politiche. La questione è di consentire con mezzi adeguati di gestire le emergenze senza per questo devastare l'ordinamento giuridico. Il nostro Paese ha avuto problemi di criminalità che in termini di codici e di ordinamenti normali sono difficilmente affrontabili. La mafia era guerra interna, ed è difficile solo con il codice penale affrontare la guerra. Non abbiamo mai voluto accettare prassi "straordinarie", per paura che queste vulnerassero l'ordinamento democratico. Ma in realtà abbiamo ugualmente modificato l'ordinamento cambiando le leggi in generale e incidendo su garanzie fondamentali. Gestire l'emergenza significa sterilizzarla dal conflitto politico. Occorre affidare le scelte in materia di sicurezza ad accordi bipartisan. Il tiranno non si combatte solo con i controlli formali e con i veti, ma anche con l'unità e con la fiducia reciproca. Fermo restando che il processo e l'amministrazione della giustizia devono essere ispirati agli standard dell'occidente dell'Europa, deve essere accettato da tutte le parti politiche che in presenza dell'atto di guerra interna non si può pretendere che lo Stato combatta con le mani ammanettate alle spalle.



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